Stalking, la Cassazione chiarisce: l’aggravante per la presenza di minori non si applica

Non basta la mera presenza di minori durante la commissione di atti persecutori per applicare l’aggravante prevista dall’art. 61, n. 11-quinquies del Codice penale. A stabilirlo è la Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 27288 ha ribadito la necessità di distinguere tra le aggravanti comuni e quelle specifiche nel contesto dei reati di stalking.

Nel caso esaminato, l’imputato era stato condannato con l’aggravante di aver commesso il fatto alla presenza di minori. La circostanza era stata desunta dal fatto che la vittima degli atti persecutori – la compagna dell’uomo – si trovasse spesso in compagnia dei propri figli minorenni al momento delle condotte illecite. Tuttavia, la Corte ha annullato la parte della sentenza relativa all’aggravante, disponendo il rinvio per la rideterminazione della pena.

Secondo i giudici della Suprema Corte, la norma generale dell’art. 61, n. 11-quinquies c.p., che prevede un aumento di pena per i reati colposi commessi in presenza di minori, non può essere applicata ai reati dolosi come lo stalking, previsto dall’art. 612-bis c.p., che tutelano la libertà morale della persona.

Il legislatore, infatti, ha già previsto una specifica aggravante per questi casi al comma 3 dello stesso art. 612-bis, circoscrivendo l’aggravio di pena all’ipotesi in cui la vittima del reato sia essa stessa un soggetto minorenne. Questo significa che, nei casi in cui il minore non sia bersaglio diretto delle condotte persecutorie, ma si limiti ad assistervi, non può essere contestata alcuna aggravante, neppure quella generale richiamata dal giudice di merito.

La pronuncia della Cassazione ha quindi valore chiarificatore, in un ambito dove la sovrapposizione tra norme generali e speciali può generare incertezze interpretative. Il principio affermato è netto: nei reati di stalking, l’aggravante per la presenza di minori si applica solo se la condotta offensiva ha come destinatario diretto una persona minorenne. Non è sufficiente, cioè, che il minore sia testimone degli atti, se non vi è stato un coinvolgimento attivo o un’intenzionalità diretta nei suoi confronti.

La decisione si inserisce in un più ampio quadro di tutela dei diritti degli imputati rispetto al principio di legalità e tassatività delle aggravanti, ma pone al tempo stesso interrogativi sul ruolo della vulnerabilità dei minori come soggetti indirettamente coinvolti nei conflitti familiari o nelle relazioni tossiche.


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Tredici anni per notificare una sentenza: il cortocircuito che svuota la giustizia

Una sentenza definitiva che resta in un cassetto per tredici anni. Una pena che non verrà mai scontata. Un debito con la giustizia che non sarà mai saldato. È accaduto a Prato, ma potrebbe accadere ovunque in Italia. Un uomo condannato nel 2012 per rapina aggravata e resistenza a pubblico ufficiale non sconterà nemmeno un giorno di carcere. E la multa accessoria da 600 mila euro rimarrà una cifra senza valore, mai riscossa. Non per un vizio di forma o per un colpo di scena processuale. Ma semplicemente perché nessuno ha notificato la sentenza fino a giugno 2025. Quando ormai era troppo tardi.

La vicenda, documentata dagli atti della Procura e dell’Ufficio esecuzioni penali, non è un’anomalia isolata. È l’emblema di un sistema allo stremo, in cui la fase più delicata – l’attuazione concreta della giustizia – rischia di naufragare tra carenze d’organico, inefficienze strutturali e colpevoli ritardi. Nella sola cancelleria del Tribunale di Prato, giacciono oltre diecimila sentenze in attesa dell’attestazione di irrevocabilità: un passaggio tecnico fondamentale senza il quale le condanne non possono essere trasmesse ai magistrati dell’esecuzione. Rimangono così sospese in una sorta di limbo burocratico, dove l’azione dello Stato si arresta prima di diventare effettiva.

Ed è in quello stesso limbo che si smarriscono reati gravi, gravissimi: violenze sessuali, abusi su minori, corruzione, truffe ai danni della pubblica amministrazione. Tutto destinato alla prescrizione. Tutto sottratto al diritto delle vittime a ottenere giustizia.

A denunciare con forza questa paralisi è la presidente del Tribunale di Prato, Lucia Schiaretti. In carica da un anno, ha portato la questione sul tavolo del Consiglio superiore della magistratura e al Ministero della Giustizia. Ha descritto una pianta organica dimezzata, un personale amministrativo insufficiente, un arretrato ingestibile che si accumula giorno dopo giorno. Ha spiegato, con parole nette, che la produzione di nuove sentenze diventa una beffa se nessuno è in grado di renderle operative. Ma la risposta delle istituzioni è stata il silenzio. Nessun piano straordinario, nessuna task force, nessun intervento concreto per evitare che la giustizia diventi carta straccia.

Intanto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, concentra i suoi sforzi su tutt’altri fronti. Al centro della sua agenda ci sono la separazione delle carriere, la riforma del CSM, la ridefinizione dei rapporti tra giudici e pubblici ministeri. Riforme che – assicura – restituiranno efficienza e imparzialità al sistema. Ma la domanda è lecita: basterà separare le funzioni per evitare che una sentenza resti dimenticata per tredici anni? Basterà ridisegnare il volto del Consiglio superiore della magistratura per garantire che una condanna venga eseguita?

La risposta, per chi conosce la macchina giudiziaria dall’interno, è no. Perché il vero cortocircuito non è giuridico, ma amministrativo. Non si tratta di un eccesso di potere da parte dei magistrati, ma di una drammatica carenza di risorse nei gangli vitali del sistema: le cancellerie, gli uffici esecuzioni, il personale tecnico. A Prato, i giudici hanno svolto il loro compito fino in fondo. È l’apparato che si è inceppato, lasciando che il tempo cancellasse ciò che il processo aveva accertato.

E allora il nodo è politico. Quale idea di giustizia ha questo governo, se lascia che le sentenze si prescrivano per mera dimenticanza? Che rispetto mostra per le vittime, se i colpevoli restano impuniti per mancanza di personale? Se davvero la giustizia è un servizio essenziale per lo Stato di diritto, come può uno Stato tollerarne l’interruzione per oltre un decennio senza intervenire?

La risposta sta nei fatti, non nelle dichiarazioni. E i fatti raccontano una realtà amara: se un servizio si blocca per tredici anni e nessuno se ne accorge, allora non è più un disservizio. È un fallimento sistemico. E di fronte a questo fallimento, la riforma delle carriere non basta. Serve una presa d’atto urgente e un piano operativo. Perché senza esecuzione, la giustizia resta un’illusione. E chi ha subito un torto, rischia di rimanere solo.


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Tetto retributivo per i dipendenti pubblici: la Consulta boccia la soglia fissa da 240mila euro

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 135, è intervenuta su un nodo cruciale del pubblico impiego: il tetto alle retribuzioni dei dipendenti pubblici. Pur confermando che un limite massimo ai compensi pubblici non è di per sé incompatibile con i principi costituzionali, i giudici hanno dichiarato l’illegittimità dell’art. 13, comma 1, del decreto-legge n. 66 del 2014, nella parte in cui fissava in modo rigido tale soglia a 240.000 euro lordi annui.

La Consulta ha ribadito che il tetto retributivo, per essere legittimo, deve continuare a essere ancorato al trattamento economico complessivo spettante al primo presidente della Corte di Cassazione, come previsto originariamente nel 2011. Il ritorno a questo parametro non è solo formale: garantisce una dinamica retributiva più coerente con l’evoluzione degli stipendi nella pubblica amministrazione e tutela l’autonomia e l’indipendenza di figure apicali dell’ordinamento, come i magistrati.

Il tetto fisso introdotto nel 2014, concepito inizialmente come misura temporanea e straordinaria nel contesto della crisi finanziaria, aveva comportato una decurtazione significativa degli emolumenti, in particolare nei confronti dei magistrati. Tuttavia, osserva la Corte, quella temporaneità si è col tempo dissolta, trasformando una misura emergenziale in una regola strutturale, con effetti ritenuti oggi non più sostenibili dal punto di vista costituzionale.

L’orientamento della Consulta si inserisce in un quadro giurisprudenziale europeo che sottolinea la necessità di preservare la dignità e l’autonomia della magistratura anche sul piano economico. Significativa, in tal senso, la recente pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea (25 febbraio 2025, cause C-146/23 e C-374/23), che ha censurato analoghe riduzioni retributive per i giudici, riconoscendo la centralità della loro indipendenza.

Già nel 2021, con la legge di bilancio (art. 1, comma 68, L. 234/2021), si era intervenuti sulla materia, introducendo una rivalutazione annuale del limite retributivo in base agli aumenti medi rilevati dall’ISTAT per i dipendenti pubblici. Tale meccanismo, applicato con il d.P.C.M. del 25 luglio 2022, ha portato la retribuzione annua lorda dei giudici costituzionali a 361.620 euro, comprendente la quota base e un incremento del 0,45%.

In virtù del principio di generalità che caratterizza il tetto retributivo, la sentenza della Corte non riguarda solo magistrati e vertici istituzionali, ma si estende a tutti i dipendenti pubblici soggetti alla medesima disciplina. Trattandosi, però, di una illegittimità sopravvenuta, gli effetti della pronuncia non saranno retroattivi: produrranno efficacia solo dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale.


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Offese sul lavoro, la Cassazione dice sì al licenziamento per giusta causa

ROMA – Offendere il proprio superiore, specie se lo si fa in modo plateale e in presenza di colleghi, può costare il posto di lavoro. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sezione lavoro, che con l’ordinanza n. 21103 del 24 luglio 2025 ha confermato il licenziamento per giusta causa di una psicologa che aveva rivolto l’epiteto “leccaculo” al proprio responsabile durante una discussione sul piano ferie.

Una frase pesante, definita dai giudici “volgare, ingiuriosa e lesiva del rapporto fiduciario”, pronunciata in un momento di tensione ma in assenza di una vera provocazione. Decisivo, nella valutazione della Corte, anche il fatto che l’espressione sia stata proferita davanti a un’altra collega, rendendo pubblica l’offesa e aggravandone la portata disciplinare.

La dinamica: insubordinazione e contesto aggravante

Il diverbio si è consumato durante una riunione interna presso una struttura che si occupa di assistenza a persone con disabilità, in seguito alla richiesta da parte del superiore di rivedere il piano ferie già approvato. La psicologa ha reagito verbalmente, usando un linguaggio definito dalla Corte “chiaramente offensivo”, senza che vi fossero elementi di tensione tali da giustificare l’uscita.

Per la Cassazione, il comportamento configura non solo una grave insubordinazione, ma anche una lesione irrimediabile del vincolo fiduciario su cui si fonda il rapporto di lavoro. Un elemento centrale, soprattutto nei settori dove la professionalità è legata alla relazione, alla comunicazione e alla gestione delle dinamiche interpersonali.

Il precedente disciplinare: “inclinazione all’ingiuria”

A pesare nella decisione finale non è solo l’episodio in sé, ma anche il precedente disciplinare della lavoratrice: in passato, la psicologa era stata sanzionata per aver insultato il padre di un paziente. Un comportamento che, pur non configurando una recidiva automatica, è stato valutato come indice di una “inclinazione all’insulto e all’ingiuria”. Per i giudici, si tratta di un elemento rilevante per definire la personalità della dipendente e la sua idoneità a mantenere l’equilibrio relazionale richiesto dal ruolo.

Le valutazioni della Corte

Con questa ordinanza, la Cassazione ha ribaltato la decisione del Tribunale di primo grado, che aveva annullato il licenziamento giudicandolo sproporzionato. La Corte d’Appello, invece, aveva già confermato il provvedimento espulsivo, sostenendo che la gravità dell’insulto – sia per il contenuto che per le circostanze – supera la soglia della semplice contestazione disciplinare e giustifica l’interruzione immediata del rapporto di lavoro.

I giudici hanno inoltre precisato che la clausola del contratto collettivo che menziona “litigi, risse e ingiurie” non richiede la reiterazione degli episodi per legittimare il licenziamento: anche un solo episodio, se particolarmente grave e lesivo, può giustificare il recesso per giusta causa.

Implicazioni più ampie

Il caso assume rilievo anche oltre il singolo episodio, perché riafferma un principio importante nel diritto del lavoro: nei rapporti professionali, il rispetto e la correttezza nei confronti del datore di lavoro non sono solo doveri morali, ma obblighi giuridici. E la perdita di fiducia, se fondata su comportamenti gravemente inappropriati, non può essere riparata o mitigata da attenuanti soggettive.


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Made in Italy, fine di un mito: dalle passerelle ai tribunali, così la moda ha perso anima e credibilità

C’era una volta il Made in Italy. Quello vero. Fatto di mani esperte, di filati nobili, di territori che intrecciavano bellezza e saper fare. Oggi, a guardare le inchieste giudiziarie che stanno scuotendo le fondamenta della moda italiana ed europea, resta solo l’etichetta. E una narrazione sempre più lontana dalla realtà produttiva.

Nelle ultime settimane, una raffica di indagini e denunce ha travolto marchi simbolo del lusso internazionale: da Max Mara a Loro Piana, da Valentino a Dior, fino a Giorgio Armani Operations Spa e Alviero Martini. Tutti accomunati da una dinamica ormai nota: prodotti venduti a migliaia di euro, fabbricati per pochi spiccioli in laboratori opachi, talvolta illegali, spesso sfruttando lavoratori pagati 4 euro l’ora e costretti a turni massacranti.

Il paradosso del lusso: giacche a 3.000 euro, operai a 4 l’ora

I casi emersi sono emblematici. Una giacca Loro Piana da oltre 3.000 euro realizzata in laboratori cinesi clandestini. Borse Dior vendute sopra i 2.000 euro ma pagate appena 53 euro al fornitore. Dipendenti Max Mara definiti nei messaggi aziendali come “mucche da mungere”. Un sistema che ha trasformato l’eccellenza artigianale in catene di subappalto spietate, dove la qualità ha lasciato il posto al margine di profitto.

Per Stefania Saviolo, docente di management alla Bocconi, il punto è culturale: «Il Made in Italy non esiste più. I brand non sono più italiani e si è persa quella cultura industriale che dava identità e legame con i territori. Il prodotto non è più centrale, si vende un logo, non un abito che fa sognare».

Dalla tradizione alla speculazione: cosa resta del Made in Italy

Il passaggio da imprese familiari a colossi finanziari francesi ha generato una frattura profonda. Il legame con l’artigianato si è spezzato, l’innovazione ha lasciato spazio alla standardizzazione. Le maison vivono ormai di profumi, cinture e borse logo, mentre il capo d’abbigliamento è diventato un prodotto accessorio.

E neppure la strategia del revival degli archivi funziona più: i capi iconici degli anni ’80 e ’90 si comprano direttamente nel circuito vintage, non più in boutique. «Paradossalmente – osserva Saviolo – dovrebbero imparare da Zara, che ha riportato il prodotto al centro, con creatività e innovazione stagionale».

La crepa nel mito e il ruolo della normativa europea

A rendere il quadro ancora più critico è la normativa europea, che consente di etichettare come “Made in Italy” un capo quasi interamente prodotto all’estero, purché riceva una minima lavorazione finale nel nostro Paese. Una falla regolamentare che, unita alla debolezza negoziale dell’Italia in sede europea, ha svuotato di senso la dicitura stessa.

Il caso è esploso anche a livello internazionale: dal Guardian al Financial Times, da Bloomberg a Reuters, i media di tutto il mondo parlano di sfruttamento e opacità nella moda italiana, con un danno d’immagine incalcolabile per un settore che da sempre rappresentava uno dei pilastri del soft power nazionale.

Le reazioni della politica e del settore

Il ministro delle Imprese Adolfo Urso ha annunciato l’imminente introduzione di una norma per certificare legalità e sostenibilità delle imprese moda. La ministra del Lavoro Marina Calderone, da parte sua, ha promesso “massima intransigenza” contro lo sfruttamento, con più ispettori, il ripristino del reato di somministrazione illecita di manodopera e l’estensione dell’assegno di inclusione alle vittime di caporalato che collaborano con la giustizia.

Nel frattempo, anche gli attori industriali iniziano a muoversi. La Camera Nazionale della Moda Italiana ha firmato un protocollo per aumentare trasparenza e controlli. Confindustria Moda chiede un piano industriale strutturale con audit obbligatori, incentivi ai campionari e tracciabilità digitale, tramite blockchain e passaporto del prodotto.

L’impatto sul mercato: la crisi dei colossi

I segnali di crisi si riflettono già nei bilanci. HSBC ha registrato un aumento del 52% dei prezzi nel lusso europeo rispetto al 2019, ma il consumatore è oggi più attento, meno disposto ad accettare rincari indiscriminati. I numeri parlano chiaro: LVMH ha perso oltre il 25% da inizio anno, toccando i minimi degli ultimi sette anni. Kering, che controlla Gucci, ha visto calare le vendite organiche del 10% e l’utile netto del 36%.

Un produttore toscano che lavora per le grandi maison rivela: «Dopo gli scandali, qualcosa si muove. I brand sono allarmati, temono nuovi titoli di giornale. Ma quanto sarà reale questo cambiamento, è tutto da vedere».

Un’etichetta svuotata di senso?

Se non ci sarà un’inversione di rotta – culturale prima ancora che produttiva – il rischio è che il Made in Italy diventi solo uno slogan, buono per le campagne pubblicitarie ma privo di autenticità. Un simbolo svuotato, che non incarna più l’identità, la qualità, il saper fare che l’ha reso celebre nel mondo.

E se cade il Made in Italy, non crolla solo un settore, ma l’idea stessa che l’Italia possa ancora offrire qualcosa di unico, diverso e inimitabile. E questa, oggi più che mai, non è solo una questione economica. È una questione nazionale.


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Legge elettorale, corsa contro il tempo per Meloni: l’ostacolo CEDU e i dubbi del Quirinale

ROMA – Se il governo intende riscrivere la legge elettorale, dovrà farlo in fretta. Giorgia Meloni ha un obiettivo chiaro: abbandonare l’attuale sistema misto – il Rosatellum – e passare a un proporzionale puro con premio di maggioranza e l’indicazione esplicita del candidato premier. Ma l’operazione, oltre ad avere un impatto politico enorme, rischia di infrangersi contro due ostacoli rilevanti: il giudizio della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e le perplessità del Quirinale.

Il fattore tempo: la soglia dell’estate 2026

Secondo quanto emerge da fonti di governo e ambienti parlamentari, il tempo utile per approvare una nuova legge elettorale scade non oltre l’estate del 2026. Il motivo? Una sentenza attesa entro l’autunno 2025 da parte della CEDU, che si pronuncerà su un ricorso presentato da Mario Staderini, attivista e già segretario dei Radicali Italiani, con l’appoggio di numerosi cittadini. Al centro del procedimento vi è proprio la violazione del principio di stabilità del diritto elettorale, a causa delle modifiche introdotte poche settimane prima del voto del 2022.

La CEDU e la regola della “stabilità normativa”

Secondo il parere già espresso dalla Commissione di Venezia, organo consultivo del Consiglio d’Europa, le leggi elettorali dovrebbero essere modificate con largo anticipo rispetto alle elezioni, per garantire agli elettori e ai candidati il tempo necessario a comprenderne gli effetti. Riforme frequenti e a ridosso del voto, ha avvertito la Commissione, minano la fiducia pubblica nel sistema elettorale e possono apparire come strumenti di manipolazione a fini di convenienza politica.

Se la Corte europea dovesse accogliere queste argomentazioni, il principio di “non modificabilità della legge elettorale nell’anno che precede il voto” potrebbe assumere valore giuridico vincolante anche per l’Italia. A quel punto, ogni tentativo di cambiare le regole in extremis – come fatto nel 2017 con il Rosatellum – sarebbe di fatto delegittimato.

I dubbi del Colle

Il rischio più concreto, in caso di sentenza sfavorevole della CEDU, è che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella si rifiuti di firmare una riforma approvata nell’ultimo anno della legislatura, cioè a ridosso del voto previsto per la primavera 2027. Il precedente del 2017, quando Mattarella firmò il Rosatellum pochi mesi prima delle elezioni, potrebbe non valere più oggi, proprio alla luce del nuovo contesto normativo europeo e dell’accentuata sensibilità istituzionale su questi temi.

Fonti vicine al Quirinale fanno sapere che l’irritualità di una riforma così strategica in piena fase pre-elettorale sarebbe vista con particolare cautela. Da qui l’urgenza, per il governo, di intervenire entro il 2026, evitando rischi istituzionali e giuridici.

Le ragioni politiche della riforma

L’interesse della maggioranza è chiaro: abolire i collegi uninominali – che facilitano le alleanze di opposizione – e introdurre un sistema proporzionale con premio di maggioranza, pensato come anticamera del premierato. Una mossa di ingegneria elettorale, che Meloni considera essenziale per neutralizzare il fronte progressista e assicurarsi la guida del governo anche in un quadro multipartitico frammentato.

La strategia ha trovato consensi anche tra gli alleati della Lega, che tuttavia preferirebbero mantenere il Rosatellum, mentre il Partito Democratico, almeno per ora, non ha interesse a cambiare. La premier, però, è stata chiara: «Se non cambiamo la legge elettorale, perdiamo tutti».

Le altre questioni sul tavolo della Corte europea

Oltre alla stabilità normativa, il ricorso alla CEDU affronta altri due aspetti critici del sistema italiano:

  1. L’impossibilità per un cittadino di ricorrere direttamente alla Corte Costituzionale contro una legge elettorale – diversamente da quanto accade in Germania.
  2. Il divieto di voto disgiunto tra la parte proporzionale e quella maggioritaria del Rosatellum, che impedisce agli elettori di esprimere una preferenza più articolata e strategica.

Su quest’ultimo punto, in particolare, un’eventuale apertura al voto disgiunto potrebbe favorire strategie di desistenza tra i partiti di opposizione, simili a quelle sperimentate con successo nel 2006 da Rifondazione Comunista in favore di Romano Prodi.

La minaccia dell’illegittimità

In caso di approvazione della riforma negli ultimi mesi di legislatura e di sentenza contraria della CEDU, si aprirebbe uno scenario delicatissimo: l’illegittimità costituzionale della nuova legge potrebbe essere sollevata fin da subito, anche grazie a eventuali nuove norme che permettano il ricorso diretto da parte dei cittadini, come chiesto da Staderini e sostenuto da una proposta di legge popolare che ha raccolto 70 mila firme in appena 48 ore.

Il precedente e l’ammonimento

Il rischio di tornare a eleggere un Parlamento con una legge destinata a essere bocciata – come avvenuto con il Porcellum nel 2013 e con l’Italicum nel 2017 – è concreto. E, come ricorda Staderini: «Negli ultimi vent’anni abbiamo votato con regole che poi sono state dichiarate incostituzionali. Non stupisce che un italiano su due non voti più».


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Separazione delle carriere, il Paese si divide: riforma al centro del dissenso

La riforma della giustizia torna ad agitare il dibattito pubblico, confermandosi tra i temi più divisivi dell’agenda politica italiana. Stavolta, al centro dello scontro c’è la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, una proposta che affonda le radici nei decenni successivi a Tangentopoli ma che oggi assume una valenza del tutto nuova: in un clima di fiducia decrescente verso la magistratura e di crescente polarizzazione politica.

Secondo un recente sondaggio Demos, la fiducia degli italiani nei confronti dei magistrati si è fermamente attestata al 40%, una percentuale ben più bassa rispetto a quella riservata ad altre istituzioni come il Presidente della Repubblica o le forze dell’ordine. Un dato che riflette un’inversione di tendenza profonda rispetto agli anni ’90, quando i magistrati – simbolicamente guidati da Antonio Di Pietro – furono i protagonisti dell’inchiesta Mani Pulite e del crollo del sistema partitico della Prima Repubblica.

Una riforma che divide, ma resta centrale

La proposta di separare nettamente la carriera dei magistrati giudicanti da quella dei requirenti – oggi parte di un disegno di revisione costituzionale – è considerata tra le riforme istituzionali più rilevanti dall’attuale maggioranza. Secondo le rilevazioni, il tema della giustizia raccoglie un consenso superiore rispetto ad altre riforme in discussione, come il premierato o l’autonomia differenziata. Eppure, il sostegno è in calo rispetto ai mesi precedenti e si affievolisce in un’opinione pubblica sempre più incerta.

L’opinione dei cittadini si mostra infatti profondamente spaccata, non solo lungo le linee politiche ma anche per effetto di un crescente disorientamento. La materia, complessa e tecnica, non è facilmente accessibile a chi non ne conosce i meccanismi, e ciò alimenta un clima di incomprensione diffusa. A prevalere, al momento, è un leggero scarto a favore del dissenso, con un’opinione pubblica che sembra più distaccata che realmente contraria.

Fiducia in crisi, consapevolezza incerta

Il calo di consenso verso la riforma si lega direttamente alla percezione della magistratura. Da simbolo di legalità e giustizia, il ruolo del magistrato è progressivamente scivolato in una zona grigia agli occhi di molti italiani, tra accuse di protagonismo, inefficienza e politicizzazione. Questo sentimento si traduce in una mancanza di orientamento chiaro sull’assetto da dare alla giustizia, con l’elettorato che oscilla tra desiderio di riforma e timore di stravolgimenti.

Il consenso verso la riforma si distribuisce, inoltre, in modo fortemente polarizzato: tra gli elettori dei partiti di governo supera l’80%, sfiorando il 90% in alcuni segmenti. All’opposto, tra le fila dell’opposizione, prevalgono diffidenza e contrarietà. Una frattura che evidenzia come il tema della giustizia sia divenuto terreno di scontro identitario, più che di confronto tecnico.

Un percorso lungo e incerto

Il cammino della riforma è tutt’altro che lineare. Dovrà passare due volte da entrambe le Camere, potrà essere modificata durante l’iter parlamentare e, molto probabilmente, sottoposta a referendum popolare. Inoltre, l’effettiva entrata in vigore richiederà ulteriori leggi di attuazione, rendendo i tempi ancora più dilatati e i contenuti soggetti a compromessi.

Tuttavia, l’interesse degli italiani per la giustizia resta elevato, forse perché – a differenza di altri temi – tocca corde profonde: il senso di equità, la tutela dei diritti, la fiducia nello Stato. Nonostante la complessità della materia, le riforme che coinvolgono il sistema giudiziario sembrano capaci di mobilitare l’opinione pubblica più dell’autonomia regionale o della riforma della premiership.

L’eredità lunga di Tangentopoli

L’eco di Mani Pulite, a oltre trent’anni di distanza, continua a risuonare nei dibattiti politici e nel rapporto tra istituzioni e cittadini. Lo ha dimostrato recentemente lo stesso Antonio Di Pietro, che ha espresso solidarietà al sindaco di Milano parlando di «una stagione completamente diversa», ma riportando inevitabilmente al centro la memoria dell’inchiesta simbolo degli anni Novanta.


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Stati Uniti e Unione Europea trovano l’intesa: dazi al 15%, maxi-investimenti in energia e difesa

Un’intesa storica, ma non senza contraddizioni. Dopo mesi di trattative a tratti tese, gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno raggiunto un accordo commerciale che prevede l’imposizione di dazi del 15% sulle merci europee esportate in America. L’intesa è stata annunciata dal presidente USA Donald Trump e dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, al termine di un vertice riservato tenutosi nella tenuta scozzese di Turnberry, proprietà dello stesso Trump.

Le nuove tariffe – che rappresentano un significativo aumento rispetto alla media del 4,8% in vigore prima dell’era Trump – colpiscono settori chiave come automotive, semiconduttori e farmaceutica, anche se sono previste esenzioni per alcuni comparti strategici. In cambio, Bruxelles si è impegnata ad acquistare 750 miliardi di dollari di energia dagli USA e a investire altri 600 miliardi in progetti economici e industriali sul suolo americano.

Un compromesso necessario per evitare l’escalation

Dietro il linguaggio diplomatico e i sorrisi di circostanza, l’accordo porta con sé una realtà complessa. Senza questa intesa, Washington avrebbe introdotto dazi del 30% sulla quasi totalità dei prodotti europei a partire dal 1° agosto. Una minaccia che ha spinto i Paesi dell’UE – pur tra molteplici resistenze interne – a scegliere il dialogo per scongiurare una nuova guerra commerciale.

«È il più grande accordo mai raggiunto, commerciale o non commerciale», ha dichiarato Trump con enfasi. Von der Leyen ha sottolineato come l’intesa garantisca «stabilità e prevedibilità» per imprese e cittadini europei in un contesto economico incerto. Tuttavia, ha anche ammesso che «raggiungere una posizione comune tra 27 Stati non è stato facile».

Le nuove regole sui dazi

L’accordo prevede un dazio uniforme del 15% su gran parte delle merci europee, inclusi auto e componenti (attualmente al 2,5%), farmaci e microchip. Restano al 50% le tariffe su acciaio e alluminio, per le quali sarà introdotto un sistema di quote e una cooperazione transatlantica per affrontare la sovrapproduzione cinese.

Sono escluse dall’aumento alcune categorie: aeromobili e componentistica, prodotti chimici selezionati, farmaci generici, apparecchiature per semiconduttori e alcune materie prime. L’elenco delle esenzioni potrebbe ampliarsi nelle prossime settimane.

Energia e difesa: l’altra faccia dell’accordo

L’aspetto più significativo dell’intesa, oltre ai dazi, riguarda l’impegno europeo ad acquistare prodotti energetici statunitensi per 750 miliardi di dollari nel triennio 2025–2027, pari a 250 miliardi l’anno. Un’operazione pensata per ridurre la dipendenza dal gas russo – ancora presente in quote residuali nel mercato europeo – e accelerare il riorientamento energetico verso fornitori occidentali.

Non solo energia: Bruxelles ha promesso l’acquisto di “grandi quantità” di armamenti USA, secondo quanto affermato dallo stesso Trump. Un passaggio che ha fatto discutere in molte capitali europee, dove si teme una subordinazione strategica all’industria militare statunitense.

Le reazioni: cautela e richieste di chiarimenti

In Italia, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha definito l’accordo «positivo, ma voglio vedere i dettagli». Una prudenza condivisa anche da altri leader europei, mentre il presidente del Consiglio UE, António Costa, ha parlato di un’intesa «che offre certezza alle imprese e stabilizza i rapporti transatlantici».

L’accordo, però, ha un sapore amaro per molti osservatori. Rispetto al Regno Unito, che ha ottenuto dazi al 10%, l’UE ha accettato un livello più alto, anche se – ha precisato von der Leyen – «il 15% rappresenta un tetto massimo, senza cumuli o sovrapposizioni». Un punto che ha calmato parzialmente i timori delle industrie europee, soprattutto quelle automobilistiche.

La posta in gioco per l’Europa

Il compromesso raggiunto è il frutto di un bilanciamento delicato tra interessi economici, geopolitica e salvaguardia del mercato unico. Gli USA restano il primo partner commerciale dell’UE per l’export e il secondo per l’import dopo la Cina, con un interscambio che vale oltre 1.100 miliardi di dollari.

Alla luce delle tensioni globali e delle prossime elezioni presidenziali USA, Bruxelles ha scelto la via dell’accordo per evitare scenari peggiori. Ma la trattativa ha mostrato quanto l’Europa sia ancora vulnerabile sul piano strategico e quanto il suo peso contrattuale dipenda dall’unità interna.

L’intesa dovrà ora essere approvata formalmente dagli ambasciatori dei 27 Stati membri, mentre nei prossimi mesi si valuterà il suo impatto concreto sulle filiere industriali, sui prezzi e sulla competitività delle imprese europee. Con l’incognita di un Trump ancora protagonista, ma che potrebbe – in futuro – rimescolare nuovamente le carte.


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Fuga dei pensionati: cresce il fenomeno di chi emigra per pagare meno tasse

Non solo clima mite e costo della vita più basso: a muovere migliaia di pensionati italiani verso l’estero è soprattutto la tassazione agevolata. Un trend in costante crescita che, secondo l’ultima relazione annuale dell’INPS, riguarda oggi quasi 38 mila persone con una carriera contributiva interamente maturata in Italia. Si tratta in larga parte di ex lavoratori privati con assegni mensili elevati, attratti da regimi fiscali molto più vantaggiosi rispetto a quello italiano.

I numeri del fenomeno

Tra il 2010 e il 2023, il numero dei pensionati italiani che hanno scelto di trasferire la propria residenza fiscale all’estero è aumentato in modo esponenziale: si è passati da 10 espatriati ogni 100.000 nuovi pensionati nel 2010 a ben 33 nel 2023. La scelta riguarda soprattutto uomini residenti nelle regioni del Nord, del Centro e in Sicilia. Più contenuta, invece, la partecipazione dalle altre aree del Sud e dalle isole minori.

Il fenomeno è trainato dai redditi medio-alti: chi percepisce una pensione lorda superiore ai 5.000 euro mensili ha una propensione all’espatrio sei volte superiore rispetto a chi appartiene alle fasce più basse. Una migrazione fiscale che segue logiche economiche precise e guarda con sempre maggiore interesse a Paesi che offrono trattamenti tributari agevolati, buoni standard sanitari e una vita quotidiana più sostenibile.

Dove si trasferiscono i pensionati italiani

Negli ultimi anni, mete storiche come Spagna e Portogallo sono state affiancate – e in parte superate – da nuove destinazioni emergenti come Albania, Tunisia, Cipro, Grecia ed Ecuador, dove le condizioni fiscali risultano estremamente allettanti.

  • In Albania, ad esempio, vige una totale esenzione fiscale sulle pensioni estere, a patto di dimostrare di non avere condanne penali superiori ai tre anni.

  • In Tunisia, l’80% del reddito pensionistico non è tassato e l’imposta effettiva non supera il 5%.

  • In Grecia, l’aliquota è fissata al 7% per 15 anni, purché il richiedente non sia stato residente fiscale nel Paese negli ultimi cinque anni.

  • A Cipro, si paga solo il 5% sulle pensioni superiori a 3.420 euro mensili, con un requisito di residenza minimo di 17 mesi.

  • In Malta, l’aliquota fissa è del 15%, ma è necessario acquistare un’abitazione per beneficiare del regime agevolato.

  • In Panama, Costa Rica ed Ecuador, l’esenzione dalle tasse sulle pensioni estere è totale.

Anche la Spagna, nonostante l’aumento delle aliquote IRPEF, resta attrattiva grazie a detrazioni generose per gli over 65 e 75, mentre il Portogallo, che fino al 2023 garantiva un’imposta del 10%, ha ora introdotto una tassazione progressiva tra il 14,5% e il 53% in base al reddito complessivo.

Le regole da rispettare

Per accedere a questi vantaggi fiscali, è obbligatorio trasferire la propria residenza fiscale e soggiornare all’estero per almeno 183 giorni l’anno. Ogni Paese impone poi condizioni specifiche: in Grecia, il regime agevolato è valido 15 anni; a San Marino, serve dimostrare un reddito annuo di almeno 120.000 euro o un patrimonio mobiliare superiore ai 500.000 euro. Alcuni Stati, come la stessa San Marino, non accettano richieste da chi sia già stato residente nel territorio.

I limiti per i dipendenti pubblici

Restano tuttavia esclusi dalla maggior parte dei benefici fiscali gli ex dipendenti pubblici italiani, poiché le normative internazionali stabiliscono che le pensioni pubbliche vengano tassate nel Paese in cui è stato prestato servizio. Solo Australia, Cile, Tunisia e Senegal hanno siglato accordi con l’Italia che prevedono deroghe a questo principio.

Pensioni minime e obblighi INPS

Va ricordato che la Legge di Bilancio 2025 ha sospeso la rivalutazione automatica degli importi superiori alla soglia minima di 598,61 euro, prevedendo un adeguamento parziale solo fino a 603,40 euro. Inoltre, per continuare a ricevere regolarmente l’assegno mensile, i pensionati all’estero devono rispondere puntualmente alle richieste di attestazione di esistenza in vita inviate da Citibank, gestore del servizio INPS per l’estero.


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L’intelligenza artificiale entra negli uffici: meno stress, più produttività (e un po’ di tempo in più per vivere)

Da alleata invisibile a risorsa quotidiana, l’intelligenza artificiale sta cambiando silenziosamente il volto del lavoro in Italia. Secondo i dati dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, nel 2025 quasi un terzo dei lavoratori italiani (32%) ha già integrato strumenti di IA nelle proprie attività quotidiane, con un guadagno medio di 30 minuti al giorno, che diventano 50 minuti per chi ne fa un uso regolare.

Un tempo prezioso che viene reinvestito non solo per “fare di più” o “fare meglio”, ma anche per attività extra-lavorative, esigenze personali e familiari. Il tempo recuperato diventa così ossigeno in un contesto organizzativo sempre più esigente e affaticante.

Una rivoluzione dal basso

La diffusione dell’intelligenza artificiale nei luoghi di lavoro non è spinta tanto dalle strategie aziendali, quanto dall’iniziativa individuale. Mentre due imprese su tre forniscono strumenti di IA, ben l’85% dei lavoratori preferisce soluzioni gratuite trovate autonomamente sul web. È il segnale di un cambiamento che parte dal basso, ma che rischia di rimanere frammentato in assenza di una governance chiara.

«Le imprese stanno investendo, ma spesso manca un disegno strategico», avverte Martina Mauri, direttrice dell’Osservatorio. Il rischio è quello di disperdere le potenzialità dell’innovazione tecnologica, senza riuscire a trasformarla in un reale vantaggio competitivo.

I numeri del malessere lavorativo

Accanto alla diffusione dell’IA, lo studio del Politecnico evidenzia anche un dato preoccupante: solo il 17% dei lavoratori italiani si dichiara pienamente ingaggiato e appena uno su dieci si sente bene sul lavoro dal punto di vista fisico, mentale e relazionale. A crescere è invece la quota dei “quiet quitter”: il 14% dei dipendenti dichiara di svolgere solo il minimo indispensabile, emotivamente disinnescato dal proprio ruolo.

In questo contesto, l’IA non è solo uno strumento di efficienza, ma una leva potenziale per restituire significato e sostenibilità al lavoro. Un “cuscinetto” tra alienazione e burnout, come lo definisce il report, che può ridisegnare il modo stesso in cui si lavora.

Il lavoro cambia, ma le aziende non sempre se ne accorgono

Solo un’impresa su sette analizza in modo sistematico l’impatto dell’intelligenza artificiale sulle attività lavorative. E mentre il 78% delle aziende segnala difficoltà nell’assumere personale con competenze digitali adeguate, la metà non monitora nemmeno le skill interne. Il risultato? Mancato allineamento tra domanda e offerta, incomprensioni organizzative e un aumento dei cosiddetti mismatch.

Eppure, i dati parlano chiaro: nelle aziende che hanno adottato un modello “skill-based”, in cui ruoli e percorsi professionali ruotano attorno alle competenze reali e non all’anzianità, il livello di coinvolgimento dei dipendenti sale al 42% e il benessere percepito raddoppia.

L’IA non sostituisce, ma ridisegna

L’intelligenza artificiale, in questo scenario, non va vista come un pericolo ma come un acceleratore di trasformazione positiva. «La vera sfida per le risorse umane nel 2025 è ridare significato al lavoro», sottolinea Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio. «Serve ripensare i ruoli, i carichi e le competenze. E l’intelligenza artificiale, se ben governata, può essere il motore di questo cambiamento».

In altre parole, non basta premere “invio” su ChatGPT per trasformare il lavoro. Serve una visione ampia, una cultura dell’innovazione capace di integrare tecnologia, persone e organizzazione. Perché solo così il tempo guadagnato non sarà solo produttività in più, ma qualità di vita, motivazione e futuro.


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